mercoledì 13 maggio 2015

L'ultima palude

di Orazio Crispo 

   Indicava, una stele con un fascio littorio, la temibile presenza della Storia, quella vera, quella che passava sopra il destino del singolo uomo e lo spazzava via.

   Segnalava, il cartello, che la zona era stata bonificata, che era stata resa abitabile ciò che prima era una povera landa insalubre e malsana.

   Ma quando il destino individuale entra nella Notte, l’esistenza sembra sprofondare in una palude che nessun uomo potrà mai prosciugare. 
   Questi i segni ammonitori dell’incontro, iniziato in silenzio e agitato dalla presenza di un libro davvero strabiliante. 


Con muti testimoni i nostri dubbi, abbiamo cercato di prendere temporaneo domicilio in una insalubre zona della letteratura, quella che non concede alibi e che non offre appigli consolatori. La malattia di vivere è un tratto caratteristico della letteratura del Novecento e Céline, medico e malato allo stesso tempo, ne è stato come il nunzio, il buio profeta. 

   Il Viaggio al termine della notte si presenta come un romanzo dal ritmo fitto e dalle cadenze esistenziali. Il protagonista appare risucchiato fin dalle prime battute dal vortice oscuro della vita e si ritrova, alla fine di ogni avventura, sconfitto abitante delle periferie dell’esistenza.  
   Da questo punto di vista l’emblema del “Voyage” mi sembra rappresentato da una palude in cui l’uomo si è gettato da solo, sprofondato nell’incubo della sua irrimediabile condizione umana. 

   Infatti questo Viaggio si presenta come una discesa in tutti quegli strabilianti inferni inventati dall’uomo: la guerra e poi il colonialismo, l’alienazione della catena di montaggio e l’emarginazione, la povertà. 

   Tuttavia la cosa sorprendente per noi sperduti lettori è che in tutti questi gironi non incontriamo soltanto la sofferenza e l’abiezione ma anche il potere imprigionante del comico e del grottesco. 

   Ed è anche questo il disarmante glamour del Novecento indossato da Céline: un secolo in cui il tragico si traveste da comico per trasformarsi infine in farsa, farsa grottesca. 
    Nel corso del romanzo, commedia e abiezione si mischiano; la tragedia è spesso accompagnata dalle risa irrefrenabili e noi, disarcionati lettori, non sappiamo più cosa attenderci visto che Céline, nel dubbio, ci propina tutto! 

   Nessuna divinità invidiosa può decidere il corso del nostro destino, nessun fato ci è avverso, solamente la disarmante casualità giustifica il nostro essere gettati nel mondo. Infinito è il caso, non dio. 
   Così il mondo diventa improvvisamente più disperante del peggiore infero immaginato dall’uomo. 

   Allora ciò che non può essere più epico potrà essere soltanto grottesco e l’uomo caduto in questa dimensione non appare più come un eroe ma come una maschera disperata, capace soltanto di incollare insieme i pezzi del giorno e della notte, cercando di destreggiarsi alla rinfusa nella miseria della vita… 
   Come Bardamù e come tutti noi. 

   Ma come dicevamo in precedenza, in questa lenta discesa non ci può essere scampo né rassicurazione alcuna poiché questo non è un romanzo di formazione; al termine delle sue peripezie il nostro Ferdinand non appare cresciuto ma ci sembra piuttosto consumato come in una lenta entropia esistenziale. 
   L’attrito prodotto dal conflitto tra l’io e le cose ci consuma, erodendo la vitalità interiore. Infatti nel corso del suo lungo viaggio Bardamu ci offre una inesorabile osservazione dell’esistenza che si sbriciola, franando ai confini della notte… 


   Un libro che è dunque capolavoro di obliqua immensità, un incubo di sconsolata allegria in cui vita e morte ricevono linfa dall’oscurità e dal caso. 

   Ma il nostro scrittore ha scelto consapevolmente di albergare proprio in questo lato buio, insomma ha scelto di prendere dimora definitiva nella parte sbagliata del destino. 

   Giunti esausti al termine della conversazione ci è dunque parso molto più sano deviare la nostra attenzione verso un romanzo più lieve, nel tentativo di attenuare quel senso di disagio nichilistico avvertito a tratti durante la pungente seduta di bonifica asinina.  

Così la serata è proseguita in pellegrinaggio verso uno stagnante lago dal confine oscuro e si è conclusa in corteo davanti ad un bar rivelatosi irrimediabilmente chiuso, serrato al termine del sabato sera.
    È stata una fine perfetta. Senza rimedio né consolazione.
-
Segnala

2 commenti:

Salvatore D’Agostino ha detto...

Nel 1946 Friedrich Dürrenmatt, in una lettera a Edward Wisteel, scrive: «L’abisso può stare solo nel fantastico e perciò nel possibile. Se l’abisso si avvera e cioè diviene reale, raffigurarlo diventa impossibile perché l’abisso s’inghiotte tutto e non vi sarà nulla da contrapporre. Perché questo è il segreto della fantasia che tutto è, al tempo stesso, dentro e di fronte a noi.»

La letteratura, per Dürrenmatt, essendo finzione si oppone al mondo reale con i suoi mondi inventati. Mondi che stanno sul crinale tra la risata e il baratro.

Lo stesso crinale, tra la ristata e il baratro, che percorre nel suo ‘non’ viaggio al termine della notte Céline: «Mi trovo bene solo in un grottesco ai confini della morte. A tutto il resto sono insensibile.»

Il ‘fantastico’ 900’ ricco d’incredibili evoluzioni in tutti i campi del sapere si schianta nell'inevitabile baratro della vita ‘abrasiva’ (sintesi perfetta di Orazio) di un uomo che lo vive (da non confondere con i banali resoconti ‘veristi’ dei filistei viaggiatori del proprio tempo).

Saluti,
Salvatore D’Agostino

Rosa ha detto...

Ditemi voi se leggendo questo passo di Agamben, non vi viene in mente Celine e il suo viaggio: "Vorrei a questo punto proporvi una seconda definizione della contemporaneità: contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente. Ma che significa “vedere una tenebra”, “percepire il buio”?
Una prima risposta ci è suggerita dalla neurofisiologia della visione. Che cosa avviene quando ci troviamo in un ambiente privo di luce, o quando chiudiamo gli occhi? Che cos’è il buio che allora vediamo? I neurofisiologi ci dicono che l’assenza di luce disinibisce una serie di cellule periferiche della retina, dette, appunto, off-cells, che entrano in attività e producono quella specie particolare di visione che chiamiamo il buio. Il buio non è, pertanto, un concetto privativo, la semplice assenza della luce, qualcosa come una non-visione, ma il risultato dell’attività delle off-cells, un prodotto della nostra retina. Ciò significa, se torniamo ora alla nostra tesi sul buio della contemporaneità, che percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci.
Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra. Con questo, non abbiamo tuttavia ancora risposto alla nostra domanda. Perché riuscire a percepire le tenebre che provengono dall’epoca dovrebbe interessarci? Non è forse il buio un’esperienza anonima e per definizione impenetrabile, qualcosa che non è diretto a noi e non può perciò, riguardarci? Al contrario, il contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo."

Articoli inerenti