di Rosa Salamone
I fatti sono questi: ore 18.00, Casa di Giufà, in due all’incontro di presentazione della Comunità dei Lettori Erranti, in tre con la responsabile della biblioteca multimediale.
Il racconto è un altro: si parte da Leonforte con un sole che ricorda primavera. Durante il viaggio, il cellulare più volte dice, mi spiace non posso venire, una frase che sa di profezia generale. Alla Casa di Giufà ci accoglie Cettina, la responsabile appunto, e in un attesa che sappiamo inutile, discutiamo sul perché non sia venuto nessuno, nonostante la maggior parte delle persone incontrate fosse entusiasta: "Bell'idea complimenti", "Quando sarete ad Agira?", "Qui, a Piazza, c'è una bella biblioteca", "A Leonforte potete venire nella mia libreria", "Finalmente, ci voleva qualcosa di diverso".
Cettina, cinturino nero sotto la vita, dice, la gente deve essere educata, preparata a partecipare a questi incontri, voi dovete farvi educatori. Io, cappotto blu non tolto, replico, perché non può esserci un rapporto alla pari tra persone che hanno conservato uno straccio di coscienza civile e imparano l’arte dell’incontro gratuito?
Una rievoca il fantasma di Danilo Dolci, l’altra il fantasma di Berlusconi e le sue televisioni. Una la butta in politica, l’altra parla di Franco Arminio e della sua capacità di far comunità nei paesi dell’Irpinia.
Comunque stiamo sbagliando il tiro. La domanda che preme e che rivolgo a te che stai leggendo, è: perché nessuno si sente più chiamato in prima persona, perché nessuno si sente coinvolto o si coinvolge, a meno che non abbia un ritorno materiale, economico o d’immagine, perché non si dà più un incontro disinteressato o oblativo?
Non è un caso che mi ritorni in mente quest’aggettivo, oblativo, di liceale memoria.
Non è un caso che noi studenti ci divertivamo a riconvertire in musica dei Beatles il suddetto aggettivo.
Non è un caso che ora chiuda questa elaborazione del post, o del lutto, con un obladì, obladà oblativo…