di Angela Riggio
“Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia. Non c’è prospettiva d’insieme. Non c’è oggettività. La si racconta dall’angolo in cui la vita ci ha strette, attraverso la fessura che la paura e la vergogna ci lasciano aperta giusto per respirare, giusto per non morire.”
Può la vita passarti accanto e lasciarti inerme? Può aspettarti all’angolo e lasciarti passare senza toccarti? Sembrerebbe quello che è succede a Rebecca, bambina brutta, talmente brutta che Mariapia Veladiano, autrice de “La vita accanto”, non perde tempo a descrivere come possa essere questa bruttezza, lascia sottintere qualcosa, lascia che il lettore sia trasportato più dal flusso del suo dolore che dall’immedesimazione fisica nel suo personaggio. “Urla il dolore senza gridarlo”, si è detto.
Chi di noi non si è mai sentito a volte nella vita così brutto?
Chi di noi, almeno una volta nella vita, non si è sentito rifiutato dalla società? Una metafora, la bruttezza, del sentirsi inadeguati alla vita; una storia questa che parrebbe archiviare il libro nel reparto “adolescenti” (o, come si direbbe oggi, “young adults”) ma in realtà è proprio la metafora insita nel romanzo a renderlo comune a tutti.
Una storia struggente e delicata che si dipana dalla nascita all’adolescenza della protagonista, che la attraversa e le lascia un segno, la consapevolezza del proprio essere e l’accettazione di sé, che cerca costantemente negli occhi degli altri ma che in fondo alla storia arriva a trovare soltanto in se stessa e nella musica. Un romanzo di sentimenti più che di parole, di sensazioni più che di azioni, di dolore più che di tutto il resto: poco importa sapere della causa della depressione della madre o dell’inettitudine del padre, o della reale consistenza dell’amore della zia nei confronti della nipote; importa invece sapere come la vita così travagliata lasci la
giovane Rebecca.
Un romanzo sull’inadeguatezza alla vita pertanto, sull’incapacità di amare, non tanto (o non solo) di Rebecca, ma di tutti gli altri, perché, come lei stessa dice alla fine del libro parlando del padre, “…..è bellissimo, ma non sa affrontare il mondo, come me. Vorrebbe ma non può”.
Una storia che si conclude con un “…Per questo lo capisco…” rivolto al padre e indirettamente a se stessa e al mondo che la circonda, a conclusione di un percorso di accettazione e comprensione totale del proprio dolore e della vita tutta.
E alle perplessità che ci si è posti, ovvero come sia possibile che una ragazzina possa sopportare tanto dolore senza un moto di ribellione, o come può essere verosimile che una società, una famiglia siano così ciechi al dolore o che la scuola sia così bigotta da insabbiare una presunta violenza fisica, io rispondo di guardarsi intorno: la famiglia, la scuola, la società, il mondo ci sembrano così lontani dai nostri adolescenti?
Proviamo ad ascoltarli ogni tanto e facciamocelo dire da loro.
Chi di noi non si è mai sentito a volte nella vita così brutto?
Chi di noi, almeno una volta nella vita, non si è sentito rifiutato dalla società? Una metafora, la bruttezza, del sentirsi inadeguati alla vita; una storia questa che parrebbe archiviare il libro nel reparto “adolescenti” (o, come si direbbe oggi, “young adults”) ma in realtà è proprio la metafora insita nel romanzo a renderlo comune a tutti.
Una storia struggente e delicata che si dipana dalla nascita all’adolescenza della protagonista, che la attraversa e le lascia un segno, la consapevolezza del proprio essere e l’accettazione di sé, che cerca costantemente negli occhi degli altri ma che in fondo alla storia arriva a trovare soltanto in se stessa e nella musica. Un romanzo di sentimenti più che di parole, di sensazioni più che di azioni, di dolore più che di tutto il resto: poco importa sapere della causa della depressione della madre o dell’inettitudine del padre, o della reale consistenza dell’amore della zia nei confronti della nipote; importa invece sapere come la vita così travagliata lasci la
giovane Rebecca.
Un romanzo sull’inadeguatezza alla vita pertanto, sull’incapacità di amare, non tanto (o non solo) di Rebecca, ma di tutti gli altri, perché, come lei stessa dice alla fine del libro parlando del padre, “…..è bellissimo, ma non sa affrontare il mondo, come me. Vorrebbe ma non può”.
Una storia che si conclude con un “…Per questo lo capisco…” rivolto al padre e indirettamente a se stessa e al mondo che la circonda, a conclusione di un percorso di accettazione e comprensione totale del proprio dolore e della vita tutta.
E alle perplessità che ci si è posti, ovvero come sia possibile che una ragazzina possa sopportare tanto dolore senza un moto di ribellione, o come può essere verosimile che una società, una famiglia siano così ciechi al dolore o che la scuola sia così bigotta da insabbiare una presunta violenza fisica, io rispondo di guardarsi intorno: la famiglia, la scuola, la società, il mondo ci sembrano così lontani dai nostri adolescenti?
Proviamo ad ascoltarli ogni tanto e facciamocelo dire da loro.
0 commenti:
Posta un commento