martedì 22 ottobre 2013

L'isola degli asini ha letto "Le pietre di Pantalica" di Vincenzo Consolo

Il 6 ottobre, in occasione della sagra del pesco e dell'incontro bagnato "Siamo tutti lettori", Filippo ha letto Comiso tratto dal libro "Le pietre di Pantalica" di Vincenzo Consolo perché la Sicilia non è un isola, ma un viaggio.





Comiso 


Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo, inoltrarmi all'interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vec­chie persone, conoscerne nuove.
  Una voglia, una sma­nia che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca. 
  Fu così che quest'anno, girando, capitai nel paese di Comiso. Vi capitai al principio d’agosto, nei giorni in cui face­vano il blocco davanti all'aeroporto dei Cruise i pacifisti giunti qui d’ogni dove. 
  Andai di primo mattino davanti al cancello centrale del campo a vedere questo blocco. Ch'era fatto sì e no da trecento ragazzi, accovacciati a semicerchio per terra in duplice fila. Volevano così impedire ai camion, alle impastatrici, agli operai di entrare nel campo. 
  Era agosto, ma alle sei del mattino era fresco, e tutti avevano maglie, giacconi, cappellucci variopinti sopra le teste di capelli ricciuti. Alcuni avevano tute o casacche bianche, e sul petto e le spalle dipinte grandi croci scarlatte. Le ragazze portavano giacchette indiane con ricami e specchietti o la kufia palestinese so­pra le spalle. 
  Sul muro di mattoni sovrastato dal filo spinato e da un filare di eucalipti dalle chiome scomposte era­no scritte di calce o appesi striscioni di tela. Dicevano: "Pace", "Amsterdam contra militarisme", "Testate nucleari - Car­ceri speciali - È questa la guerra contro i proletari", "Vogliamo vivere - vogliamo amare - diciamo no alla guerra nucleare". 
  Erano ancora tutti assonnati, e di più assonnati po­liziotti e carabinieri che chissà in quali ore notturne erano stati fatti partire delle caserme di Ragusa o Catania. Erano giovani anch'essi e schierati, nelle loro divise cachi o azzurre, tagliate da bandoliere e cintu­roni bianchi, in piedi davanti al cancello, a fronteggiare quegli altri in semicerchio accovacciati per terra. I quali mangiavano, si passavano tra loro bottiglie, pomodori, fichi, racèmi. 
  M’aggiravo sullo spiazzo di terra battuta e di stoppie, da un capo all'altro di quel semicerchio, e guardavo quei visi di giovani e volevo capire chi era dell’Isola, vedere se ne riconoscevo qualcuno. Ma nessuno, sembravano tutti d’un luogo di cui non ave­vo cognizione. E mi sembrava d’essere estraneo, che fra me e loro si aprisse un fossato, un vuoto di tempo o di spazio, ch'io fossi capitato in quel luogo da un passato o da una lontananza infinita o questi fossero sorti improvvisi dal nulla. Fu allora che mi sentii chiamare, richiamare. E mi corsero incontro al­cuni del mio paese, lì alle falde dei Nebrodi, figli o nipoti di vecchi amici o compagni. Erano Aldo, Anto­nella, Francesco, Rino, Grazia, Saro. Mi fecero festa, e io chiesi se avevano bisogno di qualcosa, se avevano da mangiare e dormire. Mi risero come avrebbero riso a un padre ansioso. Ma era un modo forse il mio per dire ch'essi avevano colmato quel vuoto che mi tene­va lontano da qui, avevano saldato qualcosa di rotto. 
  Arrivarono le impastatrici e i camion degli operai decisi a entrare.
  «A terra, a terra, fare blocco!»
  E a un gruppo d’operai andarono incontro alcuni di loro. Gli operai dicevano che la sera dovevano por­tare da mangiare ai figli, che diritto aveva chiunque di proibirgli il lavoro? I ragazzi calmi, spiegavano allo­ra ch'essi pensavano alla vita dei figli solo fino alla sera, al domani, ma che preparavano intanto la morte per loro. «Quale morte, quale morte?» rispondevano gli operai. «Noi solo scaviamo; e costruiamo alloggi, casette, una chiesa nel campo.» «Ma non capite, non capite?» dicevano i ra­gazzi. 
  Arrivava intanto altra gente, politici, preti, un aba­te di Roma ch'era stato sospeso dal suo ufficio. E arrivarono ancora furgoni, jeep, camion della polizia e si disponevano all'ombra degli eucalipti, fra una vigna e un campo di mais. Arrivò anche il questore, un omino atticciato in giacca e cravatta, i capelli bianchi e gli occhiali in me­tallo. Si mise a dire che doveva entrare nel campo, che doveva telefonare a Roma. Tutti dissero no, no! e serrarono ancora le file davanti al cancello. I militi scesi da camion e furgoni si schierarono ai margini dello spiazzo, con elmo, scudo, tascapani a tracolla e manganello in mano, all'ombra degli alberi, gli eucalipti dalle chiome rade, scomposte, i tronchi e i rami fibrosi qua e là scorticati. Sono maligni questi alberi, velenosi come serpenti, che scovano ovun­que e succhiano acqua, fanno intorno aridume e deserto, bruciano erbe e cespugli. 
  I politici si misero a parlamentare col questore, i ragazzi a scandire gli slogan. «Dalla Sicilia alla Scandinavia - No ai missili e al Patto di Varsavia.» 
  Il sole era alto e picchiava, suscitava dai campi va­pori che a poco a poco salivano verso il cielo pulito del primo mattino. I ragazzi cominciarono a togliersi giacchette, pullover, camicie, a chiedere bibite, acqua. I politici parlavano ancora col questore e cercavano di persuaderlo a non entrare. Fu invece il questore a convincere loro, i quali allora cercarono di convince­re i giovani ad aprire un varco e far passare il questore. Urlarono no, no!, i ragazzi, e scandirono ancora gli slogan. Dietro il muro di cinta, tra gli spazi del filo spinato, s’affacciavano americani che masticavano chewingum, ridevano e riprendevano con la cinepresa. 
  Aiutato dai militi, alla fine il questore, nel suo ve­stito grigio chiaro, riuscì a rompere la catena del blocco, a varcare il cancello e sparire nel campo. Urla e fischi si levarono e alcuni s’alzarono e protesta­rono coi politici. I militi davanti al cancello s'irrigidi­rono, portarono le mani ai fianchi, quelli dietro, schie­rati ai margini dello spiazzo, abbassarono sul viso la celata di plastica, alzarono davanti ai petti gli scudi. Si fece calma a poco a poco, calò su tutti la pace e la fiacca, spessa come l’afa che già gra­vava su quella pianura. 
  Cominciarono a frinire le cicale, e poco lontano, al di là del campo di mais, si scorgevano le chiome compatte e quelle a cascata di pini e di pal­me davanti a una vecchia masseria che lasciavano sognare la frescura di un’oasi. I ragazzi, sotto il sole, si spogliavano sempre di più e reclamavano cibo, bevande, sigarette. Anche i militi si scomponevano, allentavano le cinture, sbottonavano le camicie. 
  Non accadeva più niente, il tempo sembra­va immobile. Poi radioline e mangianastri diffusero musica, e ragazze e ragazzi s’alzarono e cominciarono a dondolarsi, a ballare. Ballavano a ridosso dei militi, che ridevano e si schermivano. Gli americani da die­tro il muro erano scomparsi. Le ragazze si misero a parlare coi carabinieri e i poliziotti lì davanti al can­cello e anche con quelli giù in fondo. Arrivavano in­tanto cibo, bevande, sigarette, tutto spariva in un attimo. Cercai i miei paesani, li vidi là seduti a parlare e non avevano né panini né altro. Corsi allora alla macchina e raggiunsi veloce Comiso.
  Tornato, mi stavo avvicinando con le provviste ai ragazzi, quando vedo il questore vici­no ai furgoni, sotto gli eucalipti, che, congestionato, gesticolava, dava ordini, urlava. Si mossero subito quelli del fondo con elmi, scudi e manganelli. Caricarono alle spalle. Quelli davanti al cancello, anche loro, s’accanirono contro i ragazzi, che non ebbero il tempo nean­che d’alzarsi. Picchiarono e picchiarono, con quei ba­stoni di cuoio, sopra teste, schiene nude, braccia di quelli chiusi, serrati fra due schiere. Urla si sentirono, lamenti, e un gran polverone si levò dalla terra. Riuscirono solo ad alzarsi e a scappare quelli ai lati, a inoltrarsi e nascondersi dentro il cam­po di mais. Sparavano intanto lacrimogeni, nel cielo si formavano nuvole. Inseguivano e picchiavano tut­ti, giovani e no, deputati, medici e infermieri, giornalisti e fotografi. Stavo là impietrito a guardare. E vidi una donna bella scaraventata per terra e picchiata; un giovanissimo carabiniere che s’inginocchia per terra e piange; un poliziotto che sta per sparare, quando un altro a calci nel polso gli fa cadere l’arma di mano... Vidi che afferravano per i capelli e a calci e spintoni facevano salire sui furgoni quelli catturati. 
  Mi sorpresi trasognato a urlare, a chiamare: « Antonella, Rino, Saro... ». Ma in quel momento veniva verso di me correndo una schiera di militi che inseguiva i fuggitivi. Rag­giunsi di corsa la macchina. E da lì a poco arrivarono i miei paesani, sanguinanti, pallidi, storditi. «Scappia­mo, scappiamo!» dissero. «Hanno preso Grazia» di­cevano in macchina «hanno preso Francesco». Vede­vo Antonella accanto a me, esile, magra, col collo in­sanguinato: vedevo dietro, nello specchietto, Saro, Al­do e Rino a torso nudo, con strisce gonfie, rosse e viola di manganellate. «Hai acqua, hai acqua?» mi chiesero. E trovarono la borsa di plastica con dentro una bottiglia a cui s’attaccarono avidi. Antonella im­provvisamente cominciò a singhiozzare, a piangere, e non poteva fermarsi.     Comprammo in paese alcool, garze e tintura di iodio. Tutto attorno alla piazza, dov'era una quinta di palazzi, si aprivano bar pasticcerie tabacchi carto-librerie-giornali sedi di partiti circoli consorzi banche uffici... Oltre le quinte, da una parte e dall’altra, sulla stessa linea, in simme­tria o in spaziale perfetto antagonismo, si ergevano le eccelse cupole e i campanili delle chiese barocche della Matrice e dell’Annunziata.  
  Al caffè Diana, all’ombra degli archi di donna Pippa, aspettammo immobili di sapere di Grazia e Francesco. 
  In piazza arrivarono altri ragazzi, veneti, romani, tedeschi, olandesi, tutti segnati da ferite, da manganellate. Sedevano sui gradini della fontana, sulle soglie delle case, ai bar, bevevano, parlavano concitati tra loro. Ma la gente di Comiso sembrava sparita; c'erano solo i vecchi, là in fondo, che man mano spostavano le sedie seguendo il filo dell'ombra. Dopo che arrivarono Grazia e Francesco, ci dissero che erano stati portati nel campo, poi in caserma, erano stati interrogati, schedati e quindi rilasciati con l'obbligo di sparire da Comiso.
di sparire da Comiso. 
  Li lasciai raccomandando di tornarsene a casa, ché tanto a Roma il Governo era deciso a tener duro su Comiso, a far rispettare a ogni costo gli impegni con gli USA. Scappai da Comiso, corsi sulla strada per Modica, alla volta di Ispica. Per gli stretti tornanti sulle falde degli Iblei che sovrastano Comiso, le ruote stridevano. Mi fer­mai a una curva, una sorta di balcone ombreggiato da carrubi, da cui si dominava tutto il paese. Vidi l’intrico dei vicoli, le piazze, le vecchie casupole, le innumerevoli chiese, il castello, le nuove case ai mar­gini come piccoli grattacieli, l’aeroporto dei missili là in fondo. Nel cielo, sopra il paese, si librava una grande nuvola giallastra, una nuvola di smog per le plastiche delle serre e i ri­fiuti che bruciavano da qualche parte. 
  Dopo una so­sta a Modica (entrai in una chiesa barocca in cima a un’alta scalinata attratto da un suono d’organo. Den­tro non c’era nessuno, non vedevo neanche l’organi­sta, e contro il soffitto, sopra il cornicione, da una finestra all'altra senza vetri, volavano colombi), giunsi poco prima del tramonto a Cava d’Ispica. Percorsi il cam­mino che si stendeva per un lungo tratto sul ciglio di una parete della profonda e lunga vallata dov'erano le migliaia di grotte scavate dall'uomo, le abitazioni, le chiese, le necropoli della preistoria, della storia più an­tica dei Siculi, dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, di quelli di pochi anni passati. Un cammino bordato dai bastoni fioriti delle agavi, da­gli ulivi, dai fichi, dai pistacchi, dai carrubi. 
  Raggiun­si la necropoli bizantina su in alto, una piattaforma eminente come la reggia di Argo, dov'erano tombe rettangolari scavate nel calcare. Mi distesi dentro una tomba, un po’ per scherzo e un po’ per trovarvi riposo e frescura. Supino, guardavo il cielo che da rosso si fa­ceva violaceo e s’incupiva man mano. 
  Apparve una falce di luna, e mi tornarono in mente, chissà perché, a me che non ho mai amato il melodramma, le dolcissime note belliniane e le parole della preghiera di Norma: "Casta diva, che inargenti/ queste sacre, antiche piante...".

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