domenica 1 febbraio 2015

È finita la morte

di Agata Fragola

Se è vero che ogni lettura rimanda ad altre letture anche in questo caso nel rileggere il romanzo di Tolstoj, la figura di Ivan mi ha riportato alla mente Z. il protagonista del romanzo “La sorella” di S. Marai.

Entrambi i personaggi infatti, subiscono una metamorfosi forzata, e l’irrompere della malattia sarà per loro occasione di “inversione” (non mi piace parlare di redenzione, termine troppo connotato di religiosità).

Così nel bel mezzo del cammin di loro vita, una vita vissuta alla ricerca del decoro (termine che ritorna più volte) secondo le regole della buona società, insomma una vita di finzione, interviene la malattia a ricordar loro che ciò di cui si erano nutriti e che avevano costruito, altro non era che un imbroglio. 

“….un enorme imbroglio che gli nascondeva la vita e la morte.”


E dunque Ivan dove si colloca? In questa vacatio, tra la vita e la morte capisce che non aveva vissuto ma era stato vissuto, questo vuoto di senso è l’horror vacui che prova anche Z. il pianista.
Anch'egli infatti si interroga del perché di questa malattia che lo coglie a tradimento, si interroga su cosa avrebbe potuto fare della sua vita, e la risposta è: niente! Era vissuto secondo le regole, servendo un ideale, tutto era in ordine, non aveva mai peccato contro l’armonia del proposito, tuttavia sa di essere stato punito, ma perché?

Messi in relazione al vuoto, i due personaggi si mettono in ascolto: Ivan “si fa tutto intento..” ma non comprende e, come color che son sospesi non riesce ad abbandonarsi a quel precipizio, in cui cade senza mai arrivare. Cosa gli impediva di abbandonarsi?

Glielo impediva l’idea che la sua vita era buona”.

E qui, mi sembra, Tolstoj ci parla... perché siamo noi quei borghesissimi dalla vita buona, e il monito non suona come un “ricordati che devi morire” (che uno.. gli risponderebbe alla Troisi :- Si, mò me lo appunto!) no, ciò che Tolstoj dice (a me per lo meno) è: inverti il senso, scendi dentro di te, dai ascolto a quella voce, scopri chi c’è dietro quella maschera.

Anche per Z. la malattia è rivelatrice di una menzogna (lui sarà aiutato da uno “sciamano” del sistema medico nazionale)...“Da quale menzogna di tutta un vita è scaturita la malattia?… La menzogna è quella che fino al giorno prima si chiamava lavoro, o dovere, o ambizione, o amore, o famiglia….

Alla fine di una lunga discesa nel tunnel (obbligatorio scendere nell'Ade) entrambi fanno la stessa scoperta cercano la morte e non la trovano.


Ivan “cercava la sua solita paura della morte e non la trovò, dov'era?....non c’era nessuna paura perché non c’era la morte… 

"-Ah, è così! ..Che gioia, com’è bello e così semplice…”

E Z. ci dice: 

giunti alla fine non vi è né bene né male ma l’annientamento assoluto e la rinascita perfetta.” 

La stessa esperienza la ritroviamo nelle parole di Emily Dickinson: 

Fa così paura che diventa esilarante
È talmente al di là dell’orrore che quasi incanta
L’anima dopo ha lo sguardo fisso,
Ha visto il peggio, esaurito il terrore.
Lottino pure gli altri 

La tua parte è fatta.
Così, quando l’oscura, temuta pena ha colpito
Lo sgomento si scioglie.
Gaia atroce vacanza.


“ È finita” dicono i parenti di Ivan…..”È finita la morte”.. dice Ivan.

“LA MORTE È IL RIPOSO, MA IL PENSIERO DELLA MORTE È IL GRANDE DISTURBATORE” 
(Cesare Pavese, Il mestiere di vivere)
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4 commenti:

Rosa ha detto...

Come ti avevo già detto in una conversazione privata, trovo questo parallelo tra i due libri davvero interessante e inusuale tant'è che, appena finito l'incontro, la prima cosa che ho fatto è stato prendere dalla mia biblioteca proprio il libro di Marai, comprato e mai letto, ma l'entusiasmo è stato ben presto sostituito dalla routine del lavoro e da una noia sfiancante. Mi riprometto di leggere il libro, prima o poi, che giace sul comodino ;-)

Unknown ha detto...

Non farlo giacere a lungo,sono curiosa di sapere cosa ne pensi; a parte le somiglianze, Z. è inserito in un contesto e in un intreccio differente..è un romanzo "strano" ma Maraj mi dice sempre tanto, mi invita a leggere tra le righe, non so...!

Unknown ha detto...

Giunto alla fine della lettura del commento di Agata mi viene in mente il famoso "Memento mori" di cattolica memoria, ma declinato al contrario.
Come nelle fughe a canone inverso, si potrebbe scrivere: ricordati che devi vivere!. Poichè i due protagonisti, Ivàn e Z., troppo presi dal sogno di una vita per bene, si dimenticano di sè, del significato profondo dell'esistenza. Tra Marài e Tolstoj, ecco che a malapena si nasconde, agitando le vesti, il fantasma del Grande russo. La vita dovrebbe essere tutto tranne che per bene, neutra e decorosa...
Un invito a uccidere le strozzine e preparare in silenzio la rivoluzione.
Letteraria, s'intende!

Salvatore D'Agostino ha detto...

Ricordo che il quattro febbraio di centotrentatré anni fa ha abbandonato la morte Ivan Il'ič Golovin, chiamato così da Lev Tolstoj e dai colleghi giudici e procuratori, in realtà chiamato Vanja dai genitori, padre da Liza la figlia sedicenne e da Vasilij Ivanovič il figlio che “aveva gli occhi torbidi, come hanno i ragazzi viziosi di 13 o 14 anni” e infine chiamato Jean dalla moglie Praskov'ja Fëdorovna.

Ivan Il'ič Golovin, come scrive il cronista d’eccezione puntiglioso e preciso Lev Tolstoj, dopo che da morto ha trascorso i suoi primi quarantacinque anni “comme il faut” ovvero in modo conveniente, opportuno e decoroso - assimilando modi, vedute e amicizie dell’alta società - nel momento in cui raggiunge l’apice del suo scopo di vita cade dentro un ‘sacco nero’ o meglio precipita in una profonda depressione.

Per circa cinque mesi, dalla metà di ottobre del 1881 a inizio febbraio del 1882 se ne sta rintanato nel salotto della sua nuova casa, ideata da lui stesso in ‘stile alta borghesia’, e assistito dal suo servo (che in quel periodo era uno schiavo e considerato tale dai padroni borghesi) Gheràsim, che lo aiuta involontariamente a superare la sua non malattia - incurabile con le medicine - con la comprensione o meglio con il semplice ascolto, l’unica cosa che sapeva fare uno schiavo senza arte né parte.

Cinque mesi di pensieri senza via di uscita e di dolori atroci che il cronista russo, per non confondere il lettore, localizza dalle parti della ‘vucca ri l'arma’ per dirla alla siciliana o plesso solare in italiano. Pensieri che la voce dell’anima preleva dal profondo pozzo nero in cui Ivan Il'ič li aveva riposti e che dolorosamente li fa sgrovigliare al savio, intelligente, vivace, simpatico e di buone forme, neo alto borghese Ivan Il'ič.

Dopo aver raschiato il fondo della sua anima, precipitato e sbattuto con violenza in nuovi sentimenti il 4 febbraio del 1882 decide che era il momento di “fare la cosa giusta” scomparendo dalla morte della moglie, figli, parenti, amici e colleghi. L’istante dopo l’abbandono della sua morte il male profondo della ‘vucca ri l'arma’ all'improvviso “non c’era più”.

Chi l’ha visto andare via racconta che gioiva e “sul suo viso vi era un'espressione che sembrava indicare che era stato fatto quel che doveva esser fatto ed era stato fatto bene. Oltre a ciò in quell'espressione c'era pure un rimprovero o un monito ai vivi.”

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