mercoledì 20 aprile 2011

Intervista involontaria a Viola Di Grado

di Salvatore D'Agostino

«Perché non intervistiamo Viola di Grado?», disse Paolo Sottile.
Avevamo appena scelto il suo libro attraverso skype e la domanda è rimasta sospesa tra la fine dell'incontro dei Lettori Erranti e un morso alla crostata.
Confesso, non conoscevo l'autrice. Di lì a qualche giorno ho ascoltato l'intervista rilasciata a Fahrenheit, letto il libro e spulciato nei motori di ricerca.
Per caso, qualcuno dice per serendipità ma è solo una questione di algoritmi, mi sono trovato a leggere uno strano post sul libro della Di Grado nel blog Letteratitudine in cui Massimo Maugeri, dopo una rassegna di link e una lista di temi reputati importanti, ha posto quattro domande ai suoi lettori per «favorire la discussione».
Dopo alcuni commenti la stessa Viola Di Grado risponde alle domande.
Mi sono incuriosito ed ho ripercorso a ritroso le risposte dell'autrice, rintracciando le domande degli avventori del blog, alla fine ho montato i commenti e ne è venuta fuori intervista involontaria a Viola Di Grado, spontanea, diretta, spesso ironica.
Un'intervista collettiva con i colori di chi ama perdersi in particolari, forse inconsistenti per il libro, ma importanti per la propria vita.


Massimo Maugeri Per prima cosa vorrei chiederti (domanda tipica): come nasce questo libro?

Viola di Grado Come nasce questo libro? So dirti dove: In un buco. 

Ho immaginato una storia sprofondata in un luogo soffocante che si trova al di là del tempo e dello spazio, e soprattutto del linguaggio. Dentro la mia storia è sempre dicembre, un disco incantato sul mese più freddo, in cui quattro anni prima è successa una cosa terribile. Dopo il trentuno dicembre, viene di nuovo l’uno. Il calendario è coperto di formaggio sciolto sotto il letto. I giorni della settimana non esistono più. Anche lo spazio è straniato: procede per buchi, che Livia fotografa ovunque in quella casa cadente e lugubre. Volevo che il lettore si sentisse continuamente in pericolo di cadere dentro un buco.
E soprattutto, volevo azzerare il linguaggio: prendere le parole da quel luogo infetto che è la vita di Camelia e Livia, da quel luogo svuotato di significati, prenderle insomma come se partissero da zero, e ri-significarle. In modo che i lettori percepissero uno slittamento di senso rispetto al loro significato comune. Così, è nata la storia: dal desiderio di distruggere il linguaggio e reinventarlo.
Il resto è venuto a poco a poco, idee e immagini calamitate prepotentemente alle cose già scritte. Camminavo, e mi arrivava in testa una scena, un ideogramma, o che so l’immagine di un vestito con tre maniche, la palpebra senza piega del ragazzo cinese, una riga dei manuali di istruzioni che Camelia traduce…Allora mi precipitavo in un internet point e mandavo una mail a me stessa (non mi trovo bene con il classico notes-dello-scrittore, per qualche oscuro motivo la mia grafia porta le mie parole in luoghi che amo di meno di quelli dove vanno spinte dalla tastiera…meglio del notes semmai covarle in mente. Si mescolano ad altro, a volte magari scompaiono, ma se vogliono proprio essere raccontate tornano sempre).

Annamaria M’incuriosisce il paragone con Amélie Nothomb, una delle mie scrittrici preferite.
A te come sembra, il paragone? Ti ci ritrovi?

Cara Annamaria, anche a me piace molto Amélie. Sono contenta del paragone e credo che in alcune cose effettivamente ci somigliamo, ad esempio nell’approccio anarchico alla scrittura. In altre però siamo diverse.
Ah, proprio ieri ho ricevuto una sua affettuosa lettera

Annamaria Davvero ti ha scritto Amélie? Beata!!!
Corro a comprare il tuo libro.
Vabbè, mi sa che aspetterò domattina.

Eh sì dovrai aspettare domani: i distributori automatici 24-ore-su-24 del mio libro sono temporaneamente non in funzione per problemi tecnici (l’acrilico ha intasato gli ingranaggi).

Massimo Maugeri Cosa ti ha scritto Amélie Nothomb in quella mail?

Amélie mi ha scritto che ha letto il mio romanzo, che è caduta nel buco e che è lusingata di essere paragonata a me. Dolcissima! Comunque, no Massimo non era una mail, era una lettera vera e propria.

Annamaria L’idea dei distributori automatici 24-ore-su-24 non è male.
Mi sembra bellissima!!!
Potremmo pensare anche ad organizzare un pronto soccorso per lettori bisognosi.

Il pronto soccorso per lettori bisognosi mi pare l’invenzione più necessaria dopo gli ombrelli che non si rompono e le lavastoviglie che sistemano e incastrano da sole le stoviglie. Ok, la seconda era sul genere fantascienza, ma insomma sono molto stanca, a domani!

Giacomo Ti sorrido io al posto di annamaria, che presumo sarà nel mondo dei lettori che sognano un pronto soccorso di libri.

Prometto che è la prima ed ultima volta che lascio un emoticon ( si dice così ? ) qui e altrove.

No, non sarà l’ultimo ma il primo di una serie immortale, vedrai…

Massimo Maugeri Fino a che punto il grigiore o la luminosità delle città in cui viviamo può influenzare il nostro umore e le nostre vite? Il clima di Leeds (il freddo, il buio, il grigiore) fino a che punto influenzano il carattere e la personalità di Camelia?
Se a Leed non fosse stato sempre dicembre… per Camelia credi che sarebbe cambiato qualcosa?

Leeds non è affatto una città lugubre e terribile come la vede Camelia. Anzi, a me- al contrario che a Camelia - piace moltissimo. E’ un palcoscenico di scene estreme, vomito e urla, nevicate violente, ma è elegante e vitale. Era un ingrediente perfetto da trasformare in uno scenario terribile. Era abbastanza ambigua da poterlo fare. Io la volevo rivoltare come un maglione, per rimanere nella metafora. Mostrarne il volto apocalittico, che viene direttamente dallo sguardo distorto di Camelia. E’ sempre dicembre perché lei è rimasta a dicembre. Leeds ha seguito Camelia nella tomba. Se fosse stata una città soleggiata e ridente, sobria e accogliente, Camelia l’avrebbe odiata in un modo diverso. Ma l’avrebbe odiata comunque.
In breve, sì il clima e i colori di una città influenzano le nostre vite, ma secondo me è più forte l’influsso contrario: sono le nostre vite che influenzano la città, che sia Leeds o New York o un villaggio in Nepal.

Giacomo Tessani Ti aspettavi questo grande successo a livello di critica?

Se ti rispondessi di sì, passerei per presuntuosa. Se ti rispondessi di no, passerei per insicura. Comunque, da pessimista cosmica che sono, non mi aspettavo nient’altro che la fine del mondo.

Massimo Maugeri Imparare una lingua straniera può aiutare a conoscere meglio il popolo che parla e scrive quella lingua? E fino a che punto?

La lingua, sì, dice sì tutto di un popolo, ma non dice nulla del mondo. Nella Cina antica, sia i confuciani che i moisti concepivano il linguaggio in modo strumentale: chi se ne appropria può usarla a suo piacimento per modificare il mondo. perché la lingua è un oggetto, e Confucio parla di appropriatezza del nome rispetto all’oggetto a cui si riferisce. Nel mondo di Camelia la relazione oggetto-nome è sfasata: più che APPROPRIATA la relazione, è lei si APPROPRIA degli ideogrammi per fame di reinventarsi una vita, di decifrare il mondo da cui si sente esclusa, assegnando convulsamente significati a ogni cosa, significati che però parlano solo di lei, non del mondo, alla fine. Tornando ai filosofi cinesi, Zhuangzi sosteneva che le parole non dicono nulla del mondo: parlano solo di noi stessi, che pretendiamo di conoscerlo, che blocchiamo la realtà in segmenti autoreferenziali, le parole appunto. Camelia fa proprio questo, si impossessa delle parole (cinesi) per salvarsi la vita. Per riempire buchi profondi dove sono cadute le sue parole destinate a suo padre, alla madre, al resto del mondo. Sprofonda felice in una bulimia improvvisa di significati. Le “chiavi” (/radicali) cinesi hanno il potere splendido e terribile di descrivere e classificare le cose con l’immediatezza dell’immagine. Senza banali filtri alfabetici. I tentativi di Camelia di ritornare al mondo, provando che Zhuangzi aveva ragione, non possono che riportarla ciclicamente al suo delirio, ai giorni “sempre meno numerati”, al buco…

Maria Lucia Riccioli Una domanda “sociologica”: questa impossibile resurrezione dei tuoi personaggi rispecchia un tuo modo di sentire rispetto alla società in cui viviamo? Tu hai venticinque anni, quindi sei piena parte dell’universo “giovanile”. Quali tendenze noti?

Non ho 25 anni, ne ho 23, il romanzo però l’ho scritto a 21, ecco perché Camelia ne ha 21. Dunque: credo che Camelia, dopo essere stata risucchiata dal buco, abbia conservato poco delle caratteristiche dei suoi coetanei, lei li vede come animali di un’altra specie oscena che non capisce del tutto. Non m’interessava un ritratto generazionale, se non in un senso esterno a Camelia, quello sì: generazione come luogo esterno di cui le era sbarrato l’accesso e incomprensibile il senso. Ma i significati di un romanzo, una volta scritto, appartengono a chi legge… Io tra le pagine ho messo tante scatole, chi le vede le può aprire e trovarci dentro quello che ho nascosto, o lasciarle lì tra le parole. Belle infatti le ipotesi che fate sul nome di Camelia Mega… (ndr Maria Lucia Riccioli:«Il nome Mega mi fa pensare a Game, a gioco, al gioco letterario della letteratura che è quello della continua costruzione, decostruzione e ricostruzione del linguaggio e della trama».)

Ausilio Cos’è che ti spinge a scrivere? Ovvero qual è il fatto o l’emozione o altro ancora che ti hanno costretto a scrivere? Ciascuno scrittore o poeta (lasciamo perdere gli scienziati, i filosofi e via dicendo) è sempre spinto, magari inconsapevolmente, da un qualche moto dell’animo.

No, non c’è un fatto che mi ha spinto a scrivere. Forse è al contrario: la scrittura ha spinto i fatti a succedere. Ma no, a parte gli scherzi, io ho sempre scritto, da quando avevo 5 anni, è un mio bisogno fisico, immediato. Quando ho bisogno di scrivere e non lo faccio mi sento male. Il modo stesso in cui vivo la realtà è influenzato e filtrato dalla mia scrittura. Cioè non solo racconto la vita ma vivo raccontando (nella mia testa, cioè, quando sto facendo altro). A volte infatti penso di essere prima una scrittrice e poi una persona.

Rossella Ti premetto che sono ottima conoscitrice del libro “I CHING”: pochi segni grandi verità. Anche la grande pittura è fatta spesso di simboli, mi piace ricordare che un maestro astrattista come Tal Coat (astrattismo francese dell’immediato dopo guerra) ridusse le cose al loro segno essenziale per dominarle …
Tuttavia, sono sincera, non ho ancora letto il tuo libro, spero di acquistarlo al più presto.

Dato che sei un’esperta dello yi jing il romanzo t’interesserà: il piano di lettura simbolico della storia attiene molto a una logica di esagrammi, liberamente deformata da Camelia nei suoi tentativi di ritornare alla vita…

Infine, vi saluto con un incipit: il mio. Massimo mi ha chiesto di mettere un passaggio del romanzo, e siccome mi confondo terribilmente a sceglierlo metterò direttamente l’inizio. Eccolo.

«Un giorno era ancora dicembre. Specialmente a Leeds, dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima. Nevicava tutto il giorno, a parte quella breve parentesi di autunno che ad agosto aveva scosso un po’ di foglie e se n’era tornata da dove era venuta, tipo la band di apertura prima della star.
A Leeds tutto ciò che non è inverno è una band di apertura che si sgola due minuti e poi muore. Subito dopo arrivano le plateali tempeste di neve, si abbattono a terra come maledizioni, congiurano contro il lirismo spericolato delle piccole fucsie sbocciate nel parco. E fate un applauso. Bis.
Ogni inverno di Leeds è terribilmente egocentrico, vuole sempre essere più freddo dell’inverno precedente, pretende sempre di essere l’ultimo inverno. Scatena un vento letale con le vocali strette degli inglesi del nord, ma ancora più dure, e comunque nessuno dei due è con me che parla.
E dire che non è l’inverno che la gente teme, è l’inferno, con quel calduccio di fiamme. Io li scambierei volentieri, scambierei la V di inverno con la F, se la vita si potesse gestire come uno dei miei esercizi di cinese.
Le poche volte che uscivo di casa una museruola di gelo mi bloccava la mascella, e il vento mi capovolgeva l’ombrello, me lo strappava dalle mani, lo trascinava per metri, poi lo abbandonava storpio sull’orlo del marciapiede, le stecche per aria come zampe azzoppate. Eppure gli inglesi continuavano a uscire in pantaloni al ginocchio e giacche di cotone, coi piedi scoperti e pure le gengive, gli stessi sorrisi spalancati che avevano ad agosto, e poi gli stessi passi lunghi, lo stesso modo rilassato di chiacchierare, strascicando le sillabe in bocca, consegnandole senza fretta all’aria gelida che le trasformava in fumo. E ovviamente i loro ombrelli non si rompevano mai».
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8 commenti:

L'isola degli asini ha detto...

L'operazione che Salvatore ha fatto, cioè ripulire, filtrare, montare i commenti al post di massimo maugeri è interessante, perché mette in primo piano ciò che di solito è sullo sfondo, se non addirittura sfocato.
Quanti di noi si soffermano a leggere le centinaia di commenti che si trovano nei siti che parlano di letteratura, penso soprattutto a Nazione Indiana? Spesso però sono proprio i commenti la parte più interessante di un post e proprio questo post, che è il risultato di un montaggio di alcuni commenti, ne è la dimostrazione.

Anonimo ha detto...

Mi accodo al commento che mi precede, nel complimentarmi con Salvatore per il lavoro certosino e per la considerevole pazienza impiegata affinché ciò venisse a compimento.
La cosa che più m’è saltata all’occhio di questa spontanea intervista, è stata la semplicità e l’ironia di Viola, che d’ora in poi indicherò semplicemente con V.
Io, l’intervista ad uno scrittore/ice l’avevo sempre immaginata caratterizzata da discorsi aulici adornati da un collier fatto di perle di saggezza. Le risposte di V. m’hanno dato l’impressione (piacevole) di provenire dalla bocca di una ragazza della porta accanto.
Vado per ordine, ammetto che non m’è venuto facile ed immediato commentare il post, in quanto la sua prolissità mi ha alquanto disorientato. Spero pertanto, che la mia altrettanta prolissità, non susciti lo stesso effetto sugli eventuali lettori.
Alla prima domanda V. dice: “volevo che il lettore si sentisse continuamente in pericolo di cadere dentro un buco”. Non so voi, ma con me, mi dispiace per lei, ma ha fallito il suo obbiettivo. Credo piuttosto che sia riuscita ad “azzerare il linguaggio e ri-significarlo”.
Concordo con V. nel pensare che: “sì il clima e i colori di una città influenzano le nostre vite, ma secondo me è più forte l’influsso contrario: sono le nostre vite che influenzano la città, che sia Leeds o New York o un villaggio in Nepal”, in quanto Leonforte (come qualunque altra città) se così si presenta è perché è abitata dai propri abitanti (nel caso di Leonforte ahimè dai leonfortesi), non di certo per il clima.
Se paradossalmente riuscissimo nell’impresa estrema di svuotarla in un giorno e di riempirla di catanesi o eschimesi o cinesi o amazzoni o di qualunque altra razza, sono convinto che subirebbe una repentina metamorfosi che la renderebbe irriconoscibile (verrebbe rivoltata come un maglione utilizzando le parole di V.).
Trovo verissima la concezione del linguaggio concepito in modo strumentale, adottata dai confuciani come dai moisti. Il mondo viene plasmato dal linguaggio (non solo quello verbale naturalmente). Se così non fosse che senso avrebbero la pubblicità, le campagne promozionali, ecc. e qualunque altra forma di iniziativa (tra queste l’isola degli asini) volta ad influenzare una considerevole porzione di mondo?
“ Lei (Camelia) si APPROPRIA degli ideogrammi per fame di reinventarsi una vita, di decifrare il mondo da cui si sente esclusa, assegnando convulsamente significati a ogni cosa, significati che però parlano solo di lei, non del mondo, alla fine”. A mio avviso V., in questo passaggio non fa altro che esasperare ciò che in fondo avviene in ognuno di noi. Sempre secondo il mio modestissimo punto di vista, i nostri giudizi, le nostre impressioni, sensazioni, ecc. detto in un’unica parola i nostri “significati”, dati alle cose, non sono altro che autoreferenziali, cioè parlano di noi e sono indistintamente influenzati dal nostro vissuto e dallo stato d’animo provato in un determinato momento.
Ne è un esempio emblematico la sequenza di foto di buchi, presente in questo post. Alla parola buco, ognuno di noi rimanda un immagine soggettiva (quella rimandata da me non è presente nella sequenza di immagini per esempio), quindi autoreferenziale. A me sembra quasi ovvio e scontato che il significato di “buco”, adottato da V. non sia altro che la traslitterazione metaforica della depressione.
Con ciò non escludo che per V. o per qualunque altro lettore non significhi qualcos’altro.
Anche l’interpretazione degli sguardi della madre da parte di Camelia, sono più che mai soggettivi.
Dopo aver provato sulla mia stessa pelle, che l’interpretazione non per forza di una frase, ma anche di un semplice atteggiamento, espressione, parola, ecc. non è nient’altro che il frutto di un processo di rielaborazione soggettiva delle informazioni acquisite, ne sono più che mai convinto.
Un caro saluto, ci vediamo il 28 per dibatterci ancora, non solo su Viola, ma su tante altre sfumature Di Grado di colore che ci offre in modo non gratuito la vita.
Paolo

salvotuttobene ha detto...

Salvatore D'agostino devo complimentarmi con te per il lavoro minuzioso fatto, che evidenzia la tua passione nei confronti della lettura. Da questa intervista e dalla sua opera prima, Viola mi è sembrata una scrittrice promettente con uno stile ricercato e particolare;molto interessante è il rapporto madre figlia fatto di sinergie misto a parole sguardi e gesti.

Salvatore D'Agostino ha detto...

---> Rosa L’IDA,
a proposito di lettori di commenti, ti consiglio di leggere un racconto di Gipi ‘Balcone 2.0’ pubblicato sulla sua pagina del ‘Il post’.
Riscrivo una frase: «Ci sono cinquecentosessantaquattro commenti. Li leggo.
Leggo i commenti, quelli delle persone senza firma, che sono rappresentate in rete da pseudonimi o nomi di battesimo con cifre appese che cerco sempre di capire se sono date di nascita, o altre cifre dai significati nascosti. Mi interesso a questo aspetto, quello dei nomi. Ci sono commentatori che ritrovo, di alcuni sono diventato grande estimatore. A volte guardo se, collegato al soprannome usato per lasciare un commento , si può trovare un indirizzo di posta elettronica. Si, perché vorrei scrivere a questi sconosciuti, a volte, e comunicargli il mio apprezzamento per i ragionamenti espressi, o per lo humour messo in pagina, dipende. I motivi possono essere numerosi».
Link: http://www.ilpost.it/2010/08/03/gipi-commenti-blog/

I blog aperti ai commenti producono dei testi espansi (non sempre) qualcuno dice rizomatici, al di là delle definizioni, vi è un’umanità (in carne e ossa) che conversa - passeggiando - come un flusso nella rete, visibile dal balcone 2.0.
Basta solo setacciare e ‘ricordare’.

Saluti (un bacio),
Salvatore D’Agostino

Salvatore D'Agostino ha detto...

---> Paolo,
io vorrei cambiare quel tuo (sicuramente nostro) ‘ahimè leonfortesi’.
Condivido anch’io il passaggio della Di Grado sulla città come dispositivo umorale.
Questa ‘ahimè Leonforte’ ha bisogno di un azzeramento della sua becera identità. Serve una nuova identità meno ‘auto indulgente’ (quindi basta lagna solo azioni).
Interessante il tuo parallelismo buco - stato depressivo.
Io ho pensato ad altri buchi ma ne riparliamo a quattr’occhi, spero con il sottofondo dello scroscio dell’acqua.
Saluti,
Salvatore D’Agostino

Salvatore D'Agostino ha detto...

---> Salvatore,
questo libro sta destando molta curiosità.
Qualche giorno fa sul blog collettivo ‘Minima & moralia’ (che ti/vi consiglio di consultare) è stato pubblicato una recensione agro/dolce di Francesco Longo.
Link: http://www.minimaetmoralia.it/?p=4185
Ho trovato interessante una sua replica (leggi nei commenti) che per comodità copio e incollo: «@Rosa: mi chiedi se l’azzardo linguistico può mettere in secondo piano la trama che è banale. Per me questa storia non è così banale. Non sarà certo straordinaria ma ti garantisco che gli esordienti raccontano di solito storie molto uguali tra loro (tra province tristi, precariato, riferimenti infiniti alla tv, rabbia verso berlusconi, ecc, gli esempi a catalogo sono sempre aridi lo so).
Però le trame in sé non sono banali e non esistono mai da sole. Anche un uomo che va nell’aldilà è banale ma può uscire fuori la Divina Commedia. La Di Grado non è Dante (lo dico prima che qualcuno mi faccia notare il paragone esagerato). Ma il senso è che qui, e sempre, la trama è fusa con lo stile, e se facessimo scrivere la stessa storia a un grande scrittore e a uno scrittore mediocre avremmo risultati molto diversi (un capolavoro e un orrore). Trame sole non esistono. A volte può capitare che siano particolarmente avvincenti e che anche se sono scritte malissimo abbiano una loro forza, ma sono casi rari, isolati. Di solito le trame non stanno né in primo, né in scondo piano rispetto allo stile».
Lasciando perdere la discussione sul libro che faremo tra ‘vivi’.
Mi piacerebbe pensare ai ‘lettori erranti’ come della gente che possa uscire fuori dal racconto: «tra province tristi, precariato, riferimenti infiniti alla tv, rabbia verso berlusconi, ecc».
Una sorta d’isola nell’isola fuori dai luoghi comuni, ma concretamente attiva in alcuni luoghi nei nostri comuni.
Saluti,
Salvatore D’Agostino

Saltatore ha detto...

Blog interessante!Grazie.

L'isola degli asini ha detto...

@Saltatore
grazie a te

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