martedì 3 maggio 2011

Viola di Grado "Settanta acrilico trenta lana" e l'altra metà del libro

di Rosa Salamone

«Si scrive soltanto una metà del libro, dell'altra metà si deve occupare il lettore».
Prendo il testimone che mi ha appena passato Joseph Conrad e che mi autorizza, in quanto lettrice, ad occuparmi dell'altra metà del libro.
Viola Di Grado è una giovane scrittrice siciliana emigrata nel nord del mondo. Il suo romanzo d'esordio, Settanta acrilico trenta lana, è ambientato in una Leeds sempre invernale. Quest'ambientazione l'allontana da un solco che vuole lo scrittore siciliano legato a doppio filo al canto della terra d'origine. Penso a Vincenzo Consolo, scrittore siciliano emigrato in quel di Milano che ha scritto e scrive come un "novello Ulisse" della sua Sicilia, Itaca perduta.

Nessun peana quindi alla terra d'origine in Viola Di Grado, ma la scelta di affrontare un tema universale, trasversale a qualunque latitudine dell'uomo: l'insignificanza del linguaggio davanti al dolore, che arriva imprevisto con la morte del padre della protagonista, Camelia.

Laddove il linguaggio è un tentativo di dare senso al reale, il dolore ci ricorda che un senso potrebbe non esserci e ci imprigiona al di qua del linguaggio, nell'afasia.

Ma se «nessuna cosa è dove la parola manca», come scriveva il poeta tedesco Stefan George, allora il linguaggio con la sua connaturata ricerca di senso si fa necessario.

Così mentre Livia, la madre di Camelia, ricorre al linguaggio degli sguardi, Camelia dal canto suo, grazie ad un maestro inusuale, un ragazzo cinese di nome Wen di cui si innamora non ricambiata, impara un'altra lingua, il cinese. Una lingua di cui scopre e ci fa scoprire la complicanza degli ideogrammi, il meccanismo delle chiavi, la variazione tonale e di significato, la logica dei verbi resultativi. Una lingua che pare restituire senso alla vita di Camelia, almeno nello sfoglio di qualche pagina.

La scommessa della lingua peraltro si gioca su più piani, non è solo la protagonista alla ricerca di un nuovo linguaggio e di un nuovo senso, ma anche la scrittrice Viola Di Grado "distrugge e reinventa il linguaggio", azzardando metafore e acrobazie linguistiche che inchiodano il lettore a naso in giù sul libro.


Se la Sicilia come luogo è assente, è presente però nella mentalità dei personaggi, della protagonista in particolare, con la sua logica soffocante del fatalismo, della sconfitta a priori. Ma negli scrittori siciliani, come il Verga dei Malavoglia, il fatalismo abbracciava un'intera classe sociale ed era una sfiducia verso ogni tentativo di lotta e progresso, in Viola Di Grado non si parla di una classe sociale ma dell'uomo in sè sconfitto a priori davanti al dolore, un dolore che non è maestro di saggezza, ma di egoismo, come ci rivela il finale del libro, in cui Camelia, pur di salvare un legame esclusivo di cura e potere con la madre, è disposta a tutto.

Il finale lascia insoddisfatti, poco credibile con il resto della storia, come ha detto Angela Riggio, come me lettrice errante: «se avesse scritto che lei e Wen scoprivano il colpevole di un furto in gioielleria sarebbe stato la stessa cosa».

Ad altri lettori il testimone.
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2 commenti:

Paolo Sottile ha detto...

Innanzitutto mi complimento con te per la recensione sul libro che trovo talmente esaustiva ed accattivante che se non l’avessi ancora letto sarei tentato di comprarlo.
Accolgo con piacere il testimone da te passatomi per esprimere il mio, modestissimo e privo di presunzione, punto di vista.
Innanzitutto la frase di Joseph Conrad, da te egregiamente citata, l'estenderei per il linguaggio, di qualsiasi tipo e forma, in generale. Che si tratti del testo di una canzone, di una poesia, di una foto, un filmato, ecc. Ne è un esempio emblematico l'oroscopo. Magari vi starete chiedendo che c'azzecca l'oroscopo con Conrad?
A mio avviso, chi crede all'oroscopo (io per s/fortuna no!), non potrebbe farlo se non ne scrivesse l'altra metà (scrivesse, in senso figurativo ovviamente) secondo le aspettative scaturitagli dalle previsioni del loro astrologo di fiducia.
Un'altra riflessione scaturitami dalla frase di Conrad, è che trovo fantastico, quasi stupefacente, l'effetto Domino che si crea dalle esperienze vissute (tra queste la lettura, da parte degli scrittori, di libri di altri autori), che a sua volta danno vita alla scrittura dell'altra metà dei libri, che a loro volta diventeranno libri scritti per metà e che fungeranno da matrice per la scrittura di ulteriori libri, canzoni, poesie, ecc.
Non so se sono riuscito ad esprimere il concetto, confido nel vostro acume.
Non mi trovo d’accordo (se considerata in senso stretto) con la massima enunciata dal poeta Stefan George. Anzi la trovo inusuale, a maggior ragione per il fatto che visse nella stessa epoca di Charlie Chaplin, considerato uno dei più importanti ed influenti cineasti del cinema muto. Come si può pretendere di affermare che non v’è nessuna cosa dove la parola manca, quando trovo che ci sia molto di estremamente profondo nella vita degli eremiti (giusto per fare uno degli infiniti esempi di mancanza di parola), rifugiati nei meandri della Terra per scampare probabilmente ai dogmi imposti dalla massificazione.
Riguardo alla Sicilia presente nella mentalità dei personaggi ci tenevo a riportare la definizione di impotenza appresa, letta qualche giorno fa in Terroni di Pino Aprile. Alla domanda cos’è l’impotenza appresa così risponde: << L’esperienza dei perdenti. Quando sei in una situazione di difficoltà e cerchi in tutti i modi di uscirne e ogni tentativo si rivela inutile, accetti la condizione, il ruolo di sconfitto, perché ti convinci che non esiste un sistema che ti consenta di prevalere. Apprendi di essere impotente a mutare circostanze per te negative. Dunque, a prescindere da ciò che fai, gli effetti sono sempre gli stessi, drammaticamente negativi>>.
Per fortuna non amo le generalizzazioni, quindi preferisco pensare che fortunatamente non tutti i siciliani sono vittime inconsapevoli dell’impotenza appresa.
Mi viene in mente pure l’esperimento di Stanford, nel quale bastarono pochi giorni affinché i detenuti volontari si convincessero di meritare il carcere e vi rimasero pur potendosene andare (per ulteriore informazioni visita: http://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_carcerario_di_Stanford). Anche Camelia, si convince di meritare tutto quel dolore, e preferisce subirlo passivamente piuttosto che tentare di liberarsene.

Paolo Sottile ha detto...

*P.S. Il commento è tutto unico, ma purtroppo ho dovuto "spezzarlo", in quanto il blog accetta commenti lunghi al massimo 4.096 caratteri, quindi essendo che (come ho già espresso in un commento su fb)non amo la sintesi per i motivi esplicitamente riportati nel commento citato, ho preferito piuttosto segmentarlo in due pezzi.*
Non sono d’accordo sul dolore inteso come maestro di egoismo, almeno inteso all’infuori di “Settanta acrilico trenta lana”, perciò riporto un passo tratto da Monte cinque di Paulo Coelho: << “Tutto avverrà come è stato scritto dal Signore,” rispose il profeta “Ci sono momenti nella nostra vita in cui sopraggiungono le tribolazioni, e noi non possiamo evitarle. Ma esse ci sono per un motivo.” “Quale motivo?” “E’ una domanda a cui non possiamo rispondere prima, o nel corso, delle difficoltà. Solo quando le abbiamo superate, capiamo perché c’erano.”>>. In tale tratto anch’io noto del fatalismo, che qualcuno magari definirà fede. Di conseguenza se è vera la mia ipotesi, essendo Coelho brasiliano, ed il personaggio in questione israeliano, ciò smonterebbe la tesi che il fatalismo è caratteristica strettamente legata ai siciliani.
Io son convinto che “tutto il mondo è paese”.
Il finale è proprio vero, son d’accordissimo sul fatto che lascia l’amaro in bocca.
Ho simpaticamente notato come l’esempio riportato da Angela sul “colpevole di un furto in gioielleria”, a mio avviso sia stato influenzato dalle sue letture, che come lei stessa ha dichiarato al primo incontro, sono spesse dedicate ai libri di Agatha Christie. Chissà se l’esempio fatto da mia sorella (fan di Patricia Cornwell) avrebbe visto al posto “della scoperta del colpevole di un furto”, “la scoperta di un cadavere in avanzato stato di decomposizione difficilmente identificabile”.
Mi scuso per la mancanza di tempestività nel commentare i post di volta in volta pubblicati. Una delle cause è la prolissità che miei commenti, che a sua volta comporta la lettura dettagliata del post, con appunti a seguito, che a loro volta comportano la necessità di documentarmi sugli argomenti a riguardo, in parole povere l’ennesimo effetto Domino scaturito dalla letteratura.
Buona lettura!

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