sabato 28 marzo 2015

La felice sofferenza siciliana

di Cateno Tempio

    Conversazione in Sicilia è un saggio sulla sofferenza dei siciliani. Fa sempre effetto utilizzare il plurale in questo caso: i siciliani, mentre si dovrebbe piuttosto dire il siciliano, per indicare un tipo di essere umano incapace di vedere oltre sé stesso, di contare su qualcosa – uomini, istituzioni, cose – che sia altro da sé. La sofferenza percorre quasi tutte le pagine di questo viaggio. Il viaggio è conversazione, ma se il siciliano non pensa, non è la pluralità, allora la conversazione è soliloquio. Neppure monologo, il che presupporrebbe comunque un pubblico. Nel fatto, Silvestro sembra che dialoghi solo con sé medesimo. Tutti soffrono, perché “il siciliano” soffre: soffre quando mangia un’arancia; soffre quando attraversa lo stretto (qui solo in un senso, ma soffre pure e forse ancor più quando lo attraversa nell'altro); soffre quando guarda donne denudate per l’iniezione; soffre quando beve vino in compagnia; soffre quando parla con il fantasima di un fratello defunto. «Ed è tanto soffrire?», chiesero i siciliani. Così è detto un passo prima dell’epilogo. Ma come nella vecchia barzelletta, si può dire che il siciliano è un tipo che s’offre. È dunque tanto s’offrire? Costa poi molto offrirsi al primo venuto? Non costa nulla, perché nulla il siciliano ha da offrire. O più precisamente, ha da offrire tutto, ma con la coscienza che questo tutto non vale nulla, con la consapevolezza che i furori che lo invadono non sono per nulla eroici, sono sempre astratti.




Estratto dal film Sicilia! di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub del 1999, un adattamento del romanzo Conversazione in Sicilia

  Il popolo siciliano è una contraddizione, perché il popolo presuppone la pluralità, mentre il siciliano la sconosce. Eppure il siciliano soffre e s’offre come popolo. Ma pure: si offre e si nega; soffre ed è felice. Nessuno è felice al mondo come un siciliano, che è felice del nulla. E del siciliano, di me siciliano, apprezzo e disprezzo questo mio essere e non essere popolo, questo mio essere e non essere a un tempo, in senso assoluto; questa mia fuggevolezza perenne, inafferrabilità, inconcludenza sociale e politica, essere a un tempo dentro e fuori dalla storia, dalla cultura, dalla civiltà; essere dèi, come si dice nel Gattopardo, essere non uomini, ma incarnazioni temporanee dell’eternità dei miti.

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domenica 1 marzo 2015

Conversazioni a Borgo Cascino, Enna. Sicilia, forse.

Chi gioca solo non perde mai. Questa è una delle perle, marce, di saggezza tramandataci dai nostri padri, a ricordarci che è bene diffidare di ogni forma di "associazione" che, per un automatismo del linguaggio e del pensiero, è sempre "a delinquere". Noi che si gioca insieme ad altri lettori e che, di volta in volta, si è aperti al nuovo e all'imprevisto, di conseguenza, si perde sempre. 

Con quest'alzata di bandiera bianca, vi invitiamo, lettori e perdenti, a leggere un libro datato 1941 odissea in Sicilia, scritto da un siciliano trapiantato al nord, Elio Vittorini, e che s'intitola Conversazione in Sicilia. Su questo libro il sangue di molti critici è stato versato, ne raccogliamo alcune gocce: "viaggio poetico impressionistico", "viaggio poetico morale per recuperare il perduto senso eroico di sé" "discesa alle madri" "ritorno alle origini". Dopo tanto spargimento di sangue, noi, stringi stringi, si dice che è la storia di uno che ritorna nella sua terra, forse la Sicilia, e vi ritrova un "mondo offeso" e sconfitto, siamo ai tempi del fascismo imperante. Il romanzo, fino al midollo, ha un tono lirico e fiabesco ed è una selva oscura di simboli, messi lì per aggirare la censura e far "sfirniciare" ovvero "scervellare" il lettore nel tentativo di decifrarli.

Precipitatevi, lettori e perdenti, a comprare o recuperare dagli scaffali della vostra libreria, il suddetto libro, a leggerlo o rileggerlo e poi, se vi aggrada, a conversare con noi del libro, sabato 28 marzo a Borgo Cascino, uno dei borghi voluti proprio dal fascismo nell'ambito del programma di ripopolamento e riforma agraria del latifondo siciliano, sopravvissuto all'abbandono e popolato da una sessantina circa di persone. 
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